VADO VERSO DOVE VENGO Mostra collettiva Galleria Funspace Art Roma
COMUNICATO STAMPA → Curata da Francesco Ruggiero e Yongxu Wang si inaugura Giovedì 30 Maggio 2019 dalle ore 18.30 negli ambienti della Galleria d’Arte Fun Space di Via Principe Eugenio, 96 a Roma, la Mostra collettiva degli Artisti Gianpaolo Berto, Valerio Inchioda, Ikuko Komagata, Sergio Millozzi, David Ovidi, Andrea Quercioli e RDMM, titolata Vado Verso Dove Vengo. Come un lungo racconto. La Mostra presenta tredici Opere di recente esecuzione degli Artisti Contemporanei invitati alla Mostra. il percorso della Mostra, spiega Flavio Patrizio Romano D’Agate, … può essere rischioso, soprattutto quando per farlo non prepariamo bagagli, non scegliamo una meta, ma consideriamo unicamente il mezzo col quale intraprenderlo, la nostra Anima e per estensione la nostra mente. Allora è possibile avventurarsi in territori che probabilmente conosciamo poco, e il rischio sta lì, non avere le capacità per affrontare il viaggio e tirarsi subito indietro leccandosi le ferite, con qualche cicatrice, ma tutto sommato integri. Oppure continuare ad inoltrarsi e sentirsi dopo poco irrimediabilmente perduti. Eppure si sa: la via misteriosa va verso l’interno, conoscere il mondo equivale a conoscere se stessi, e la comprensione del mondo non può che avvenire attraverso la conoscenza di ciò che siamo. Conosci te stesso, era l’esortazione, oggi fin troppo abusata, sul Tempio di Apollo, che vuol significare conoscere i propri limiti. La Pittura può essere un tramite per un viaggio del genere, un viaggio interiore, sia per chi la osserva ma anche, e soprattutto, per chi ne fa uso, virtuoso o improprio che sia … Come un lungo racconto, una narrazione verso l’origine, in cui scoprire che non è mai esistita una prima volta, l’origine appunto, e che mai vi sarà un’ultima volta, il termine della Storia. L’eterno ritorno dell’uguale del vecchio pastore di montagna, Nietzsche … ciò che vuoi devi volerlo in modo tale da volerne anche l’eterno ritorno. Vado Verso Dove Vengo. Colto, il testo di Marcello Mantegazza nel Catalogo della Mostra, ... quanto in quei tratti dell’Artista c’è della sua vita, delle sue lotte, conquiste, dei suoi sacrifici, a partire dal metodico studio severo che ogni Accademia artistica esige ai suoi studenti perché il suo prestigio si rinnovi negli Artisti formatisi in essa. Segni grafici che sembrano casuali ma di un caso che non lascia nulla al caso. Anzi, invita a penetrare dentro il vento di tempesta con cui respingono chi vuole osservarli, per scoprire al centro di essa proprio dove la bufera rumoreggia sempre di più e non si vede più nulla, un occhio del ciclone che è la parte più preziosa di ogni Artista, carica d’infinite potenzialità come una sfera ipercubica sconosciuta all’Artista stesso ma a cui sempre cerca di arrivare istintivamente risalendo il sentiero di conoscenza guidato dalla luce dell’intuizione. Perché l’Arte è come un lungo racconto? Un racconto è fatto di parole. Le parole non sono solo insiemi di vocali, consonanti, spazi e punteggiature ... La Mostra si inaugura Giovedì 30 Maggio alle ore 18.30 con Arie d’Opera eseguite dalla Cantante Lirica Salvina Maesano e rimarrà aperta fino a Giovedì 13 Giugno 2019. Catalogo della Mostra disponibile in Galleria
TESTI Opere in Mostra
Vado verso dove vengo, come un lungo racconto. Sono due pensieri di Carlo Levi, assiduo frequentatore di quella fucina di Artisti che sono le Accademie delle Belle Arti. Gli Artisti, soprattutto contemporanei, vengono giudicati impropriamente poiché non si percepisce quanta luce emerga da un’Opera, anche la più stilizzata, che proviene da un Artista. Quanto in quei tratti, in quei gesti ci sia della sua vita, delle sue lotte e conquiste, dei suoi sacrifici, a partire dal metodico studio severo che ogni Accademia d’Arte impone ai suoi studenti affinchè il proprio prestigio si perpetui negli Artisti formatisi in essa. Segni grafici che sembrano casuali ma di un caso che non lascia nulla al caso. Anzi, invita a penetrare dentro il buio vento di tempesta con cui respingono chi vuole osservarli, per scoprire al centro di essa, proprio dove la bufera rumoreggia sempre di più e non si vede più nulla, un occhio del ciclone che è la parte più preziosa di ogni Artista, carica d’infinite potenzialità, come una sfera ipercubica sconosciuta all’Artista stesso, ma a cui sempre cerca di arrivare istintivamente risalendo il sentiero di conoscenza guidato dalla luce dell’intuizione. Perché l’Arte è come un lungo racconto? Un racconto è fatto di parole. Le parole non sono solo insiemi di vocali, consonanti, spazi e punteggiature.
Epitome blu di Valerio Inchioda si fa rappresentante di quella difficile impresa, ogni volta grande perché incerta, ma infine raggiunta dalla corona della realizzazione posta in capo all’Artista, dall’audacia della sua perserveranza nell’ascoltare le possibilità, che consiste nel ritrarre l’ignoto al di là delle cose e di se stessi e che è la vera parte di se stessi e degli altri, in attesa di trovare negli altri quel che di noi non troviamo in noi stessi senza che gli altri diventino noi stessi bensì rimangano altri. L’Opera è caratterizzata da un dualismo cromatico di bianchi e di blu che si diversifica secondo strutture calcificheggianti a richiamare la tendenza della coscienza a indurire in giudizi quello che rimanendo percezione diverrebbe sempre più vivido, come l’aumento di calore che si verifica in un abbraccio: non come illusione perché non sarebbe positivo al percepire. È il bianco che traspare dai nembi delle liquide matrici dei blu con i loro spruzzi e sprazzi calcificanti. Non bisogna avere timore di quella ruvidezza ma avere fiducia che dietro la patina dura del blu quasi nero sullo sfondo che vorrebbe scavare il viso di chi la guarda, come con la carta vetrata, c’è la speranza dell’azzurro ovvero del blu di tenebra che abbracciando il bianco diverrebbe azzurro. Ma lungo è il cammino, quell’azzurro albumino è solo uno sprazzo all’interno di carte vetrate blu di razionalità. Allo stesso tempo promette cose tali che vale la pena immergersi in quella ruvidezza per infine afferrarlo e portarlo oltre tutta quella razionalità blu nel campo del vero ignoto. Anche questo è andare da dove si viene.
Millennium di Javier si presenta come una composizione mista di significati figurativi e astratti, una sintesi per così dire hegeliana, una chimica goethiana delle forme dei movimenti dei colori che nelle correnti danno luogo a un’Opera caratterizzata da un dualismo cromatico a base di rosso e azzurro. L’Opera può essere letta come una metamorfosi progressiva dei suoi quattro elementi l’uno nell’altro: la Luna, il Redentore, la Chiesa o la Sinagoga, la Colomba. In una prima fase della conoscenza dell’Opera la figura del Redentore è in realtà l’Artista. La Luna racconta dell’universo interiore iniziale dell’Artista, É posizionata sul suo cuore come un universo che pulsa il suo evolversi al tempo del battito del cuore, ma che nasconde fuori di se un universo ancora più in opposizione ad esso, rappresentato da un Redentore ingannevole perché dall’aspetto ambiguo e dai colori cupi. Si trasforma infatti in una struttura ancora più grande di lui tale che sembri veramente incasellare tutto dentro di sé senza via d’uscita: ma è proprio nel cuore di essa che si trova la vera libertà, il cielo azzurro ancora più al di fuori di essa in cui l’Anima dell’Artista volerà come una Colomba tra la libertà dell’azzurro e la matrice ordinatrice del rosso. Anche qui come nell’Opera dell’Inchioda c’è la rivelazione di una realtà nascosta delicata e leggera nella sua infinita profondità. Qui è dietro il rosso aspro e coagulante che altrimenti prevale in una sorta di caoticità dell’ingannevolmente buono, il ragno che si traveste da fiore e che solo nella colomba di questa Opera sembra denotare sublimazione della parte negativa di se stesso, una Colomba dalle ali leggere come orecchie di coniglio.
Forma di vizio e Profumo di primavera di Ikuko Komagata sono Opere caratterizzate da un’estrema delicatezza estetica che trascende la forma per farsi orizzonte d’infinito in ogni loro corpo, nella padronanza del limite dato dal tratto e dal colore. Il pigmento giapponese nelle mani della Komagata trasforma i corpi in Anime, il limite in infinito. Sono Anime a forma di ondulazioni sonore e anche colori e rivelano un tessuto speciale, assai più peculiare del sangue in Goethe: è il vero mistero a cui andiamo, quello da dove veniamo, né materia né energia ma entrambe oltre, vibrazioni non di suoni perché se sono di colori non sono né di colori né di suoni né quindi di vibrazioni. É la Speranza che oltre il limite ci sia l’infinito, quello vero fatto di mistero che non appaga nell’essere conosciuto bensì nell’essere vissuto in modo che il suo conoscerlo faccia parte del suo viverlo e non il suo viverlo del suo conoscerlo, perché migliora se stesso all’infinito dalle sue proprietà già percepite come un numero che eleva al quadrato ogni elevazione al quadrato che avvenga da ogni altra precedente svolta su stessa dalla sua iniziale moltiplicazione su se stesso. Perché lo 0 è in realtà il vero 1, e quell’uno sommato su se stesso realizza il miracolo della permutazione quadratica infinita di sé. E allora lo è anche il Mistero fatto né di materia né di energia, quindi oltre tutti i motivi, i calcoli di entrambe, che sono come le due sorellastre di Cenerentola. Per librazioni di mistero e non vibrazioni di energia. Oltre il vizio del limite, la primavera dell’infinito. Per camminare a piedi nudi l’uno nell’infinito mistero di ogni altro che siamo e saremo, ognuno indispensabile all’altro come i punti geometrici per fare lo spazio, perché ognuno carico d’infiniti punti ogni istante, punti infinitamente estesi e contemporaneamente infinitamente non-esistenti quindi inafferrabili da nulla di negativo, sempre più infiniti come biglie che riempiono all’infinito gli spazi vuoti di uno spazio infinito. Perché l’emanare non esiste, è solo l’illusione generata dal nostro infinito risucchiarci a vicenda tirando fuori l’infinità che è dentro ognuno di noi. Non esiste il solare, esiste solo il lunare. E allora come dicono i Giapponesi, korede ides-ka … va bene così.
Investigazioni Private #1 e Investigazioni Private #2 di Sergio Millozzi, sono Opere caratterizzate da un realismo magico nel loro farsi quadrati di conoscenza, un inno alla celebrazione velata e cifrata del mistero della conoscenza della Natura che è quadrata in ogni suo punto cioè è ipercubica, ovvero è una sfera ipercubica, la sferizzazione del cubo. E’ la Natura segreta quella che traspare all’intuito dell’Artista, quella che neanche la sua parte razionale può conoscere perché va semplicemente oltre tutto il conosciuto, oltre il prevedibile che sia astrofisico oppure sciamanico. Un giorno al momento giusto queste opere saranno fondamentali per attingere da esse chiavi e informazioni su strutture ancora segrete di questa grande sfera ipercubica che siamo in cui siamo e che prima o poi scopriremo di essere. Per questo sono private: ancora non possono emergere alla luce di quel sole che la luna del cervello crede di essere, accanto al falso sole del cuore e all’ancor più falso sole del pube. Come il bambino della leggende indù, superiore a Brahma, Vishnu, Shiva, perché Shiva non poteva distruggere il filo di paglia che il bambino teneva in mano, Vishnu non lo poteva mantenere quando il bambino lo dissolse tra le sue dita e Brahma non si ricordava di aver mai creato quel bambino. E sicuramente c’è un altro bambino che quel bambino non si ricorda di aver mai creato. Quel bambino può parlare a noi solo attraverso l’Arte, in un mondo dove la logica di Matrix è tale da controllare anche la capacità sciamanica di vedere oltre le cose, in modo da impedire di vedere oltre quella stessa capacità sciamanica di vederle. Soltanto investigazioni private possono condurre a tanto. Ogni uomo è un Artista dice Beuys. Un giorno ci troveremo nel mondo al di là delle nostre creazioni artistiche ma creato da esse, il mondo della libertà aurea che per esse si manifesta. Soltanto l’Arte può condurre alla vera conoscenza, non la Scienza né la Mistica perché entrambe passive rispetto ad esse, e la verità non è passiva.
Senza Titolo #1 e Senza Titolo #2 di David Ovidi sono Opere che denotano un camminare dell’Artista nella sua Anima, ritraendo fuori di sé i tracciati dei percorsi evocativamente chagalliani delle sue impronte nei colori e nelle profondità delle sue impressioni, con un tratto in parte vangoghiano dove il colore viene steso oltre che con la punta del pennello anche con la coda e con il dito, in una congiunzione di opposti e di sintesi, una sintesi della sintesi intera all’universo espressivo dell’Ovidi che manifesta all’osservatore quei risvolti metamorfici della conoscenza a cui normalmente non fa caso, perché si appaga dell’immagine ricevuta dall’occhio in un’ottica di taylorizzazione della percezione, ovvero di ottimizzazione del profitto conoscitivo della stessa a danno della qualità del prodotto di tale conoscenza all’interno della sua coscienza. Mentre l’Opera dell’Ovidi ci insegna ad andare oltre questa selezione ingiustificata per scoprire quel che è ancora contenuto all’infinito in quel che credevano di conoscere e che ogni volta ci sorprenderà come una natura che si fa seno di motivi in ogni natura conoscente, o un gioco che diventa amore.
Le Opere di Andrea Quercioli, Mi è venuto male questo alluminio e In compenso quello rame mi è venuto peggio, comunicano la capacità dell’Artista di afferrare in superfici lunari colte dal limo del suo istinto poetico, sempre nuovi particolari all’interno della sua visione pessimistica che sulla resina da tavolo da lui usata assume un aspetto cosmicamente leopardiano, tradito tuttavia dalla bella resa del colore che denota tranquillità dell’insieme e dalla calda luce cromatica dell’Opera ramata. E’ quella tranquillità che fa pensare ai mari della Luna vista dall’alto e che la mano dell’Artista porta dal suo mistero oltre la sua volontà razionale di credere che non esista e in questo dialogo, contrastante di dialogo e mente, emergeranno sempre nuovi particolari finché prevarrà la luce del rame sulla opacità dell’alluminio. Nel frattempo l’osservatore può ammirare lo svilupparsi organico e crescente della battaglia interiore dell’Artista che lotta contro il suo stesso pessimismo cosmico, perché se vuole creare è perché è un lottatore che ama la vita e imprime questa sua volontà appunto creando, e allora le sue opere la irradiano e allora è un pessimismo che nasconde la speranza che la creatività porterà luce e forza alla libertà, oltre l’apparente necessità della razionalità limitata nella menzogna di non credersi fantasia più reale dell’utile e più utile del reale.
Batalla perdida e En el centro de la batalla di RDMM, sono Opere che permettono di guardare come nell’Anima di un Artista la vita può essere considerata una continua guerra contro la più tragica delle sventure, la necessità. Tutti i sentimenti, le aspirazioni, i desideri e le tensioni dell’Artista esplodono in spruzzi di sangue biunivoci delle aspettative schiacciate da un cielo ogni volta cupo, tragico, disfatto. Ma il vero nemico dell’Artista non è uno Spazio tiranno che lo sovrasti, bensì il Tempo, visto come muro invalicabile oltre cui l’Artista vede cessare ogni possibilità di portare oltre di esso il suo potere interno forte come quello di Dio. Il Tempo, non visto come un’eternità esplorabile che si tesse di spazialità infinita frattale e lussureggiante tutta da scoprire e da gustare, bensì come Padre che uccide ogni suo figlio, Crono divoratore, nero abisso della fine verso cui tutto cade e nulla può resistere. Perché se quell’immensità vissuta dall’Artista come negativa non fosse un Tempo patrigno anziché materno, se fosse spaziale, mai potrebbe essere considerato invincibile, con l’eternità dalla propria parte, e mai potrebbe essere infinito nella sua negatività. E allora le persone sono cadaveri già tali sin dalla nascita che lottano e si spezzano e l’Artista si chiede: a che serve? Forse, serve a chiedere all’Universo il mai chiesto: l’accesso a ciò che è oltre il Tempo patrigno, per trovare il Tempo materno e iniziare l’unica vera guerra eterna sacra degna di essere vissuta: quella del Tempo materno contro il Tempo patrigno. Non quella di uno spazio contro un altro spazio. Oltre l’inganno di ogni rivoluzione. Perché la rivoluzione non è mai amore, è solo bene, e il bene che è solo bene non è mai amore come la carnalità in cambio di o l’affetto che è solo affetto. La vera guerra sacra sarà la Guerra dei Tempi, non degli Spazi. E quella non sarà una batalla perdida. E el centro de la batalla sarà il cuore di ogni essere. Per quel cuore si combatterà.
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