ANTONELLA CAPPUCCIO Il Gioco dell’Arte Tacconi Art Space Ascoli Piceno
COMUNICATO STAMPA → Si inaugura Venerdì 3 Febbraio 2023 alle ore 18.00 la Mostra personale di Antonella Cappuccio Il Gioco dell’Arte a cura di Giuseppe Bacci, che si terrà presso la Tacconi Art Space, Zona Industriale Campolungo, Via del Grano, 2 ad Ascoli Piceno. Verrà offerto un Apericena in collaborazione con la Osteria Ophis a cura dello Chef Daniele Citeroni accompagnata dalla musica live del gruppo World Trio. Il Calendario/Catalogo, edito dalle Grafiche Tacconi, con testi di Dacia Maraini, Giorgio Di Genova, Claudio Strinati, Marco Bussagli, Giuseppe Bacci e con dedica dell’Artista, sarà offerto ai presenti.
ANTONELLA CAPPUCCIO Da sempre ho avuto verso i Critici d’Arte un rapporto doppio. Di attrazione e il suo contrario … Anch’io, come la maggioranza degli Artisti, ho spesso sofferto il “bisogno” del loro consenso, indispensabile per essere riconosciuti da un mercato che, il più delle volte, cerca nel parere del critico una garanzia per investire nell’arte. La critica, infatti, ha influenza sul mercato (c’è da sperare che sia sempre illuminata!). Sono molti gli artisti, pur bravi, che, non appartenendo ad un entourage, vengono ingiustamente ignorati, mentre altri vengono esaltati. Per tale ragione l’artista vive una continua aspettativa, un senso di dipendenza dal consenso, che, sebbene sia indispensabile per vivere nell’arte, è anche un vincolo da cui vorrebbe liberarsi per cercare forme espressive totalmente autonome. In tal senso è forse appropriato dire che l’arte è il Paradiso e il mondo dell’arte l’Inferno. Può accadere talvolta che si abbia la fortuna di incontrare “il Critico giusto”, capace di trovare la “pepita d’oro” nel caos sabbioso del talento. Non pochi i critici che sono riusciti a entrare in osmosi intellettuale con l’artista creando una vera e propria corrente di pensiero: allora l’incontro diventa magia. Nel corso di tutti questi anni, a me non è capitato un tale “incontro magico”. Ho conosciuto però critici generosi e illuminati, primo fra tutti il mio professore, un fine intellettuale, artista, costumista e pittore: Dario Cecchi. Poi Dacia Maraini, Mario De Micheli, Vanni Ronsisvalle, Domenico Guzzi, Mario Lunetta, Vito Apuleo, Edward Lucie Smith, Federico Zeri, Marcello Venturoli, Idalberto Fei, Ivana D’Agostino, Fabrizio Lemme, Giorgio Tempesti, Giuseppe Gatt, Sergio Guarino, Ebria Feinblatt, Gabriele Simongini, la poetessa Mariapaola Langerano, gli psicanalisti Lorenzo Ostuni e Katriona Munthe, il collega Gianluigi Mattia, e ancora Maurizio Fioravanti, e gli ottimi critici d’arte Giorgio Di Genova, Antonello Trombadori, Rossana Bossaglia e infine Claudio Strinati. E fast but not least Marco Bussagli. A tutti rivolgo un sentito grazie per l’amichevole attenzione che hanno voluto rivolgere al mio lavoro. Nonostante i molti consensi ottenuti, posso affermare che il mio è stato un percorso il più delle volte solitario. In questo nostro mondo in cui tutto ha un prezzo, le parole più care sono quelle che nascono da una vera disponibilità a capire, da un’emozione, da una considerazione sincera, ma soprattutto dal condividere, anche solo per un breve tratto di strada, lo stesso “viaggio”. È per questo che, per presentare il mio lavoro, ho scelto di riportare frammenti di testi scritti da alcuni amici: la scrittrice Dacia Maraini e gli ottimi critici d’arte Giorgio Di Genova, Claudio Strinati, Marco Bussagli e infine Giuseppe Bacci
DACIA MARAINI Storia di un’assenza quotidiana → “Mia mamma è buona e sempre felice di me e perché io sono felice di lei e la mia vita è bella e la tua vita mamma?” In questa lettera appuntata con uno spillo contro un cielo tenerissimo dai bianchi che si mescolano allegramente agli azzurri, si può rintracciare lo stile della pittura di Antonella Cappuccio; una apparente abbandonata serenità, un apparente fanciullesco ottimismo sotto cui si nascondono tensioni e tristezze violente. Vediamoli un momento questi quadri uno ad uno: un vestito grigio goffo e modesto che fa pensare a un corpo di donna sformato dalle gravidanze e dalle fatiche domestiche, un cappello d’uomo appeso ad un gancio contro una parete dai disegni festosi, una giacca di tweed a spina di pesce dalle maniche logorate dall’uso e il colletto spiegazzato che conserva la traccia di un collo umano, un grembiule a quadretti bianco e arancio sopra cui si stagliano delle pietre, un paio di pantaloni neri su cui si siede una bambina che gioca, una veste scura di donna che tiene fra le braccia un neonato avvolto in uno scialle rosa confetto. Tutte queste figure però non sono persone ma involucri. Le presenze che vengono rivelate contro cieli soffici e fondali grondanti di fogliame verdissimo sono in realtà delle assenze. Colui che guarda è chiamato a seguire quadro dopo quadro la traccia di un fantasma, di un corpo senza testa, senza braccia, senza piedi, senza mani, che pure si nasconde muto e attonito dentro questi vestiti dilatati e consunti. Questa assenza non ha niente di drammatico, di violento. Non è una denuncia contro il potere reso invisibile dalla corruzione. È una constatazione poetica e dolorosa di una generale assenza quotidiana. L’assenza di chi patisce, di chi subisce, di chi appunto non c’è perché ha alienato se stesso ai valori, ai miti, all’ideologia dominante, di chi ha regalato se stesso per un piatto di lenticchie. Curiosamente i soli testimoni di questa dissoluzione umana sembrano essere le pareti, le tappezzerie, i cieli, le stanze, le strade, che comunicano una tranquilla e gloriosa gioia di esistere. Assistiamo così ad una strana scomposizione ovvero inversione formale: gli oggetti inanimati prendono colore e forma, si fanno veri, animati, e gli esseri umani diventano irreali, sfuggenti, senza vita. La colorata dolente assenza riguarda sia gli uomini che le donne. Ma mentre per gli uomini si rivela saltuaria e rimediabile, per le donne sembra essere costante e irrimediabile. Le donne sono la presenza più corposa e struggente di questi quadri. Esse passano da una infanzia spettrale ad una adolescenza scolorita, mutilata, per continuare con una giovinezza dalla consistenza calcarea, da cui poi entrano in una maternità fantomatica e finiscono con una vecchiaia che ha la palpabilità della stoffa bruciata.
GIORGIO DI GENOVA La Pittura post-concettuale di Antonella Cappuccio Antonella Cappuccio ha sempre oscillato tra nostalgia dell’armonia classica e pulsioni di dissacrazioni. Per dirla in sintesi, tra Apollo e Dioniso, che poi sono le due facce della stessa medaglia. Nella sua pittura, che si è sempre nutrita della storia della pittura, il bello ed il deforme si sono alternati. E se il primo aspetto è stato conseguenza della sua versatilità nel disegno e nella tecnica pittorica, che le ha permesso un figurare risonante di echi antichi, il secondo aspetto proprio dal primo è sempre scaturito, nel senso che, nella sua capacità di restituire ai contemporanei memorie dei passati e gloriosi secoli della pittura italiana, ha trovato lo stimolo a spingersi oltre per rimescolare le carte dell’armonia apollinea, in modo da ridistribuirle per fare i suoi solitari dissacranti. Così, da Mantegna e Botticelli a Raffaello, Antonella ha saputo trarre ispirazione per soddisfare la sua nostalgia di armonia classica e, contestualmente, le sue riletture post-concettualiste […].Ecco zampillare nel 1980-81 le dinamiche proliferazioni e le compenetrazioni mantegnesche (da Cristo Morto, da Presentazioni al Tempio), ecco poi le originali riflessioni su Botticelli, sia nel ribaltamento d’inquadratura della famosa Primavera, la cui scena Antonella spia da dietro offrendocene una visione inedita (Il commiato, 1982), sia nella scomposizione e ricomposizione, in una sorta di riadattamento della lezione cubista al post-Concettualismo […]. Dopo la fase speculare […] Antonella ha aderito alla Nuova Maniera Italiana, passo che ho sempre considerato come una sorta di personale saison en enfer, e per questo non l’ho condiviso. È durante questa saison en enfer neomanierista che ella ha dato fondo al primo polo della sua natura in maniera […]. Il dover sottostare ai precetti di una teoria critica ideata al rimorchio dei successi di mercato dell’Anacronismo e dell’lpermanierismo, in realtà aveva privato la Cappuccio delle prerogative migliori della sua pittura, cioè la libertà ideativa […]. Una volta staccatasi dai dogmi critici della Nuova Maniera, è progressivamente montata in lei una ripulsa dei trascorsi neomanieristi, al punto da sentire l’esigenza di un gesto dissacratorio verso essi, un gesto che nel contempo fosse esorcizzante ed anche pregnantemente liberatorio. E per esorcizzare tali suoi trascorsi quale migliore atto poteva compiersi se non quello di distruggere La Veste, una delle opere dipinta nel 1991 che, per importanza e imponenza (infatti misurava 2 metri per 4), simboleggiava la sua militanza nella Nuova Maniera. Ed è infatti quanto ha fatto Antonella.
CLAUDIO STRINATI Giochi d’Arte Antonella Cappuccio ha avuto una evoluzione lunga e complessa […]. La visione della nostra artista è stata sempre acuta e penetrante, improntata a un senso esplicito del più evidente naturalismo, con una presa sul reale forte e perentoria e tale visione non è mai cambiata nel corso del tempo, mentre molti, e talvolta inaspettati, sono stati gli sviluppi di una simile idea figurativa sempre incompatibile con l’ovvio e col banale. Non è, infatti, un’artista dolce e tenera la Cappuccio, ma netta e aliena da qualunque ammorbidimento della percezione […]. Oggi la Cappuccio è arrivata a una concezione della forma articolata ma non annichilita nella sua essenza profonda, che reca dentro di sé una componente enigmatica che l’artista esalta e, anzi, vuole mettere nella massima evidenza al punto che continui sono i riferimenti, nella sua peculiare costruzione delle immagini, al gioco del Rebus, in cui frammenti di parola si incastrano e si collegano per ricreare un insieme coerente e logico. E, in effetti, Antonella, in una visione complessiva in parte profondamente religiosa e in parte dipendente da un assoluto e razionalistico laicismo, stabilisce nel suo discorso pittorico regole e vincoli che non sono un limite alla sua creatività ma, all’opposto, sono un concreto veicolo di espressione, per cui l’atto del frammentare e scomporre le immagini è, in definitiva, rivolto all’esaltazione del vedere, che non è più quella del naturalismo spinto degli esordi ma una forma attenuata di verosimiglianza in cui si inseriscono echi disparati di iperrealismo, di metafisica, di oggettivismo rappresentativo, senza che si possa iscrivere il suo lavoro in nessuna di queste antiche categorie. Al contrario, lo stile di Antonella è libero e, insieme, “costretto”, per cui si accentua quella componente cerimoniale e ufficiale che è stata sempre sottesa alla sua opera. […] Carlo Fabrizio Carli, con felice formula critica, ha indicato in Antonella, nella sua attuale fase, una disposizione “aggressiva nella sua stessa fragilità”, volendo significare quel fenomeno, tipico della nostra artista, consistente in un alleggerimento luminoso che tende come a scardinare la forma, pur lasciandola intatta nella sua purezza ed evidenza. Un flusso cromatico che tutto unifica, anche nella frammentazione delle immagini, funge come base imprescindibile per la realizzazione di questi piccoli poemi visivi che raccontano, mentre immobilizzano i dettagli, su un continuo andirivieni di emozioni e soste meditative che sono forse proprio la quintessenza dell’arte della Cappuccio.
MARCO BUSSAGLI L’Arte di Antonella Cappuccio Un’esplosione di creatività! Non può essere che questa la definizione più adatta per descrivere in sintesi l’approccio di Antonella Cappuccio alla dimensione artistica […]. Se si ha la fortuna di entrare nel suo studio di Trastevere, a Roma, non ci si può non stupire dell’ordinata confusione che regna in quei locali che, in certo senso, ricordano l’antro dell’alchimista […]. Quando si mette piede nel suo ‘regno’ si viene rapiti da una specie di turbine di simpatia e di pirotecnica allegria che tracima da una personalità che non può lasciarti indifferente […]. La produzione artistica di Antonella Cappuccio ha una posizione di rilievo nel panorama artistico italiano del XX e di questi primi due decenni del XXI secolo […]. L’esperienza artistica più importante, quella che connota la tipologia pittorica dell’arte di Antonella Cappuccio, è stata sicuramente la “Nuova Maniera Italiana” […]. Nel 1985 Antonella Cappuccio presentò la prima personale concepita secondo i canoni della Nuova Maniera Italiana, cui fecero seguito quelle del 1987 a Milano, del 1988 a Lione e le numerose collettive […]. Bisogna poi rammentare nel 1989 a Los Angeles la collettiva intitolata Four Artists of the New ltalian Manner […]. L’esperienza di Los Angeles presso la Mayer Schwarz Gallery, fu condivisa con altri tre pittori della neonata corrente e, segnatamente, Antonio D’Acchille, Bruno d’Arcevia e Alessandro Romano. Personalità artistiche diverse, ma in un certo senso complementari, che condividevano, con entusiasmo, un percorso di creatività al quale Antonella dette una veste mitologica quando dipinse un quadro che è una sorta di manifesto del movimento: Ratio fecit diversum. Il titolo, in perfetto stile “pittura colta”, è una citazione da San Bernardo di Chiaravalle, o meglio, dall’Epistola Sancti Bernardi De revisione cantus Cisterciensis, et Tractatus cantum quem Cisterciensis Ordinis ecclesiae cantare che […], nella sostanza, riferisce della concezione dell’arte che aveva il mistico filosofo e abate di Clairvaux […]. Antonella Cappuccio, non senza una sottile ironia, ma anche con una visione, in certo senso, “teologica” della pittura, impiega questa frase come titolo di un’enorme tela (un metro d’altezza per tre di larghezza) che rappresenta i protagonisti della Nuova Maniera Italiana. Sono riuniti in un arcadico boschetto, con ruderi classicheggianti su cui dipinge una ninfa-Antonella che, nuda, dà le spalle al pubblico e guarda gli altri che sono, da sinistra, Bruno d’Arcevia, seduto accanto a un libro aperto, Alberto Abate in piedi e nudo anche lui come un novello Febo, Giuseppe Gatt bardato d’armatura e Paola Gandolfi. Allora la frase a sfondo cosmologico finisce per descrivere un altro universo, quello degli artisti e dei teorici che si sono lanciati in questa nuova avventura nella quale credono profondamente e che, in quel momento, si configura come il propellente della loro vita interiore. Sono declinazioni (diversum) di una medesima idea di arte (ratio) che ciascuno interpreta a proprio modo, ma con uno stesso scopo: recuperare la bellezza della pittura e della poesia.
GIUSEPPE BACCI Proiezione dell’Anima nella Pittura di Antonella Cappuccio La condivisione di un percorso di strada vissuto insieme, anche se breve, permette di conoscere i parametri stilistici di Antonella Cappuccio e del bello che permea tutta la sua produzione pittorica. Chi si avvicina alla sua opera è guidato verso un superamento del visibile che funge da ponte verso ciò che l’occhio non riesce a vedere: la sua anima. E se l’anima, fin dai tempi più antichi, è stata interpretata come il principio che raccoglie le parti di un corpo in una unità vivente, nelle opere della Cappuccio l’anima dà vita alla scena rappresentata. Conoscendo l’artista, si è rapiti dalle sue pitture e dai suoi concetti invisibili, come se la pittura rappresentasse la sua percezione dello spazio, spazio che implica il concetto di esteriorità e quindi di estensione, cioè di un vuoto invisibile in cui gli oggetti e le figure vengono collocati in relazione tra loro secondo un ordinamento e una posizione reciproca. Per entrare in questa sintonia estetica è necessario recuperare la presenza del fanciullino che è nel cuore di ogni uomo e riviverla quale ispirazione artistica che trasforma, agli occhi del fruitore, il “senso ignoto” delle cose e dei segni. Fortunatamente nel cuore di ciascuno alberga sempre quel fanciullino che sa ancora meravigliarsi e gioire. Immergersi nell’arte di Antonella Cappuccio è condizione indispensabile per sentirsi partecipi della sua attività creatrice e, conseguentemente, della sua capacità di produrre cose “belle”, vale a dire caratterizzate da un libero accordo tra l’intelletto e l’immaginazione: lo dimostra la produzione di questo calendario/catalogo 2023. Gli artisti che si sono cimentati, in questo venticinquennio, nella realizzazione del calendario delle Grafiche Tacconi hanno sempre accolto con entusiasmo la proposta di collaborazione, consci dell’alto valore del progetto, anche in considerazione dell’eccellente manufatto che ne scaturisce. Considerata l’odierna cultura delle immagini e la debolezza dei linguaggi contemporanei, il calendario assolve anche al ruolo di emozionare chi è distratto dal qualunquismo e dall’edonismo, al fine di riaccendere il desiderio dell’arte. Questa collaborazione è da considerarsi come “omaggio alla carriera”, dedicato ad un’artista che ha operato con acribia, offrendo alla fruizione pubblica pregevoli opere d’arte, con il consenso della contemporaneità. L’operato artistico di Antonella Cappuccio si dipana in svariati cicli iconografici e ritrattistici, celebrando così il percorso storico di illustri personaggi sia laici che ecclesiastici; ne è un esempio illuminante il ritratto del compianto Papa Benedetto XVI. Antonella Cappuccio, raccontando l’avventura della sua produzione artistica con i linguaggi contemporanei, si serve di stilemi in linea con le stagioni artistiche del Novecento, ma ne trasmuta le pulsioni contemporanee, così da ridare alle sue opere sostanzialità di contenuti. La pittura di Antonella Cappuccio è preambolo alla bellezza, poiché fa guardare nel profondo della natura per scoprire, attraverso lo scorrere composto e appena ritmato del pennello, il paesaggio nell’intima matrice divina e nella domestica ferialità. E il tempo che intercorre tra un’esposizione e l’altra non è altro che un momento di riflessione per l’artista, una pausa necessaria per poi riprendere al meglio la sua attività , superando le innegabili difficoltà che ogni giorno la vita riserva a noi tutti.
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ANTONELLA CAPPUCCIO monografilm Il Gioco dell’Arte