NINO LA BARBERA Galleria Ulisse Roma
COMUNICATO STAMPA → La Forma che vuole rivelarsi ci suggerisce il metodo è il titolo della Mostra di Nino La Barbera che si inaugura Lunedì 7 Novembre 2022 alle ore 18.00 alla Galleria Ulisse di Roma
NINO LA BARBERA La Forma che vuole rivelarsi ci suggerisce il metodo Ogni qualvolta il nostro sguardo si posa sulla natura per conoscerne e riconoscerne le forme e i colori, la loro collocazione nello spazio, l’appartenenza a un genere o a una specie nel suo inarrestabile divenire e costante rivelarsi, si mettono in moto interagendo tutte le facoltà, censite e non censite, preposte a tale esigenza. Ma tutte insieme nel loro agire sublime esse ottemperano ad un’altra funzione fonda-mentale-la più antica, la “prima” forse: quella contemplativa della natura segreta, silenziosa, immanente, come se lo sguardo del creatore penetrasse le sue creature, il suo creato, cogliendone fino in fondo la perfezione. L’arte che è l’espressione intrinseca e traboccante di tale attività, ha dunque una duplice origine: viene preparata dall’osservazione instancabile delle forme, delle vie, delle leggi segrete che animano la natura; ma sopraggiunge per rivelazione “simpatetica” al culmine di lunghi processi trasformativi delle esperienze dischiuse dall’osservazione, ponendosi cosi, tra l’uomo e la natura stessa come decodificatore subliminale atto a propiziare sia l’attività conoscitiva che – con forse ancor maggior efficacia – quella contemplativa.
FRANCESCO GALLO MAZZEO Labirinti’che La torre di Babele e la superbia, la luna contemplata dai caldei, le sabbie innumerevoli del Gange, Chuang Tzu e la farfalla che sogna. Sono servite tutte queste cose, perché le nostre mani si incontrassero … Lungo il corso delle generazioni gli uomini eressero madre delle tranquille parche che tessono il destino, Cloto che fila, lachiesi che fissa, Atropo che taglia. Parola di Borges! E cosi in avanti, nella spinta di sentieri che non sono sentieri, di discorsi che sono mute escursioni, nel silenzio, di volti che guardano se stessi, dentro specchi, invisibili volte del tutto, che trama architetture e nuvole, memorie e proiette, visioni traslucide, in turbini che alimentano sacche gioiose, di ogni desiderato mutar di giardini, in selve, in acque, in corti divine. Contemplabili sono i suoi riti sacrali, rebus divi di enigmi sfingesche, che non ruotano mai verso rivoli e rimangono velati, irraggiungibili, seppur trasparenti, senza mai sorridere o piangere, proiettandosi dove nuotano tutti gli eterni, che sono prototipi di tanti, ma sono eretti come uni che sospendono, il fiato, lo scorrere del tempo, in una fisica impossibile, perché immaginaria, poetica, sognata nel sogno, vegliata nella veglia, nata nel cuore, a battiti, lenti, ritmati da una musikè, di tutte le muse e risvegliata, cosi, in pittura, da queste alfabetiche insegne, con cui, Nino La Barbera, imbastisce un atlante, che è un’area senza perimetro, proiettato nel piccolo, sempre più piccolo, nel grande, sempre più grande. Cosi avviene, il passo d’Apollo, che pone, scompone, dice, non dice, allude, geometra, inventa, d’ogni ibis, redibis … spostando, oratoria, stile, in cetra d’Orfeo e il passo di Zeusnizias, che è solto, volto e rivolto, tempesta dei sensi, orgiastica sfida ai bollori del sangue, in coppe fluenti e otri che stagnano stive di pudrite navi. Riflessi e capovolti bagliori, rubinetti che figliano botti, che sono vasi pandore, dove ogni cosa, si mescola e gorgoglia e al pittore, all’illustre cervello, dall’occhio veloce, che scruta, corteggia, compone, in un continuo andare verso le regioni d’ignoto e tornare, moderno Giasone, pieno di velli, carichi d’oro. Riflessi, si sfidano in una vicenda pittorica impetuosa, dall’aura di vena barocca, in cui non c’è centro, non c’è periferia, ma tutto si mostra, inesorabile, come un rizoma, in cui non c’è alcuna possibilità di filo che dia una meta, un’uscita. Ed è appunto, in questa condizione di gioco di specchi, che si complica il punto di vista, che non è mai uno, ma è diffuso su tutta la tavola, inducendo ad un rapporto di immensità, gioiosa. Nel segno, c’è l’uscita dal caos, che è il paradosso del bianco, in cui tutto si può inscrivere, ma che si presenta con l’inganno di un candore, che, invece di essere, arcadico e pasquale, si presenta come un terrore da vuoto, che spinge alla loquacità dell’attesa, alla espansività del silenzio, proprio nell’attimo in cui si spinge il “demone” fantastico a darsi un compito, un ruolo, che consegue al suo essere, nel tempo. Nel disegno, si coglie l’impalcatura teatrale delle opere, che non può mostrarsi visibile, perché essa è la testimone muta di una vera messa in scena, del connubio tra il mito, la storia, la biografia e l’attualità, in cui tutto cessa di essere archeologia del sapere, dell’apprendere, del comprendere e diventa, sostanza di una alterità, che è rituale e alchemica. Nel colore, si tracciano, si solvono, si risolvono, tutte le luminescenze, le armonescenze e le turbolenze del frontespizio pittorico, con una qualità moltiplicante, che in alcuni momenti, costituisce un turbamento e in altri, un rasserenamento, in una scambievolezza tonale, che non ha mai punti di separazione o giustapposizione, ma sempre traspirazione ideale. Totalmente astratti sono i momenti in cui il salimento, fantastico raggiunge le vette metafisiche, perché la visibilità si è fatta alta, rarefatta, con una attenuazione del dato sensoriale e un fervore di quello puramente mentale, che, però, non è mai freddo, meccanico, numerico, ma emozionale, partecipativo, musicale; cercando e trovando motivi di una sua propria formalità, non rapportabile a morfologie mimetiche, ma fruttalità edeniche, di un pensare che insiste su se stesso, diventando genesi di forme e non forme e di colori che si assumono le responsabilità della liberazione fantastica, della tecnica e della poetica, in una entità, che ha solo raffigurazioni nebulose, stellari, oppure oniriche, in quella forma che le culture magiche mettono in rapporto con la profezia, con la divinazione. Avviene, cosi, una torrente affermazione della negazione, perché il tutto si pone in una forma e in un modo che, sembra normale, ma in effetti è totalmente surreale, effetto di un lampeggiare, in opera, del noumenale. Strutture e soggetti, sono quelli della quotidianità, della mitologia, della metamorfosi, in un concerto, in cui è l’invisibile che gioca un ruolo di coinvolgimento, di trasgressione, di socializzazione, in un continuum, in cui non si svolgono fatti o si leggono vicende, ma si scandiscono vibrazioni, contrazioni ed espressioni, anche quando tutto sembra statico immobile. Qui, tutto si volge ad una connotazione di ricerca, dove non c’è mai niente di definitivo, ma tutto è assunto come energia di un invisibile, che appunto si nega alla vista, ma è solo apparenza, perché in effetti è l’anima, che non batte, ma che ha cuore, che non vede, ma ha vista. Selinunte e Roma, sono una sua metafora della vita, a cui non si può e non si deve sfuggire, pena la caduta in un limbo, in una precarietà senza fondo, che non permette, in sua assenza, di essere proiettivi, inventivi, portati ad avere una genitività pienamente umana. Nel romanzo dell’artista, la prima è l’alba di tutto, la formazione nell’immaginario, la possibilità di operare uno scambio simbolico, con tutto quello che esso comporta, nella uscita dall’ordinarietà, la seconda è l’atmosfera della maturità, quella in cui avvengono le scelte, le consapevolezze, le poetiche, ma anche le passioni, gli automatismi, architettualità, facendo dell’uno, l’altro. Spazio Curvo, è come essere dantesco e post moderno, con una forte paradossalità, che è il senso dell’arte, che è contemporanea sempre, in quanto non conosce confini, riuscendo ad essere, nella stessa stagione fantastica, in tempi diversi, in luoghi diversi, perché cosi chiede quell’amore indefinibile che viene dall’alternarsi di spirito saturnico e rossalità solare, avendo l’implicazione dell’essere nel tempo, con le sue angosce e tristezze, con quello nell’eterno ritorno, per cui si sentono le sirene che cantano, ma anche i clamori delle scienze, in purezza, per cui ogni cosa viene risolta (ma, in effetti, è in divenire) con forza di intuizione, che è il terzo occhio della nostra umanità, sulla china di un sapere di non sapere, che è Itinerarium mentis in Deum. Sempre. La querelle della cronologia, si incontra con quella dell’Ayon e del Kairos, creando una circuitazione di fascinosa suadenza, per cui il tempo biografico dell’artista si mescola con l’apparizione delle opere, venendo a formare un precipitato alchemico senza tempo, con una affinità elettivache lo porta a mischiare le carte in una attualità, che non ammette revoche, presentandosi come thesaurum, da scrutare con attenzione all’unità, ma a tutta la sua ricchezza, che è intensa, intensiva, in una sinteticità tutta dinamica, quanto statica, in una paradossalità, che è poetica, lirica, inebriante.
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